Ultima modifica: 17 Gennaio 2017

Anno scolastico 2015_2016

Milano, li 19.05.2016

 

      I seguenti alunni sono risultati vincitori del Concorso di Poesia “Ettore Barelli”

 

Prima classificata Lea  Zancani 3L
Secondo classificato Andrea De Bettin 4B
Terza classificata Eleonora Toscano 5G

 

Hanno ottenuto una segnalazione della giuria le poesie dei seguenti alunni:

 

Lorenzo Ferrara 3C
Davide Crucitti 5B

 

I seguenti alunni sono risultati vincitori del Concorso di Narrativa  “Ettore Barelli”

 

Prima classificata Francesca Minola 2I
Secondo classificato Alessandro Diana 1I

 

Ha ottenuto una segnalazione della giuria il racconto di Giulia Ghirardi 3C

Le premiazioni sono avvenute martedì 7 giugno alle ore 11.30 in auditorium.

 

Vincitori del concorso di Poesia

 

L’ossimoro coerente (Lea Zancani)

Un vigile distratto sulle strisce pedonali,

ansiosi pazienti sui lettini degli ospedali,

ristoranti di lusso che servono hamburger vegetariani,

il deficit eccessivo di cui parlano i quotidiani

 

Un’esistenza di sola apparenza, profondamente superficiale

se non ti piace quello che sei puoi essere un altro nella realtà virtuale

fisicamente vicini, seduti insieme eppure distanti,

sguardo fisso sui telefoni e silenzi assordanti

 

parliamo di fuoco amico, di guerra civile e non capiamo

che la guerra è ciò che dalla civiltà è più lontano

cambiando continuamente principi, cercando sempre nuovi stimoli

forse siamo coerenti soltanto coi nostri ossimori.

 

La Giostra (Andrea De Bettin)

Non parlerò di un tema tradizionale

ma m’immergerò nel mondo medioevale.

Narro la vicenda d’una principessa

che in cerca da molto tempo d’un valido marito

decise di bandire una gara affinché da essa

potesse trovare il miglior partito

e non divenire per la ricerca fessa:

dico che d’introdurre, ho qui finito.

 

Molti e centinaia furono i pretendenti

che presto respinti si definiron perdenti.

Un cavaliere, su un puledro che masticava biada,

disse: “Ti donerò la mia forza!” e, combattendo

contro servi pagati con gioielli di giada,

vinse con facilità ma con orgoglio gioendo

a testa alta inciampò e cadde sulla sua spada!

Questo fu il primo della storia che narrare pretendo.

 

Giunsero nuove persone ogni mese

come un membro del popol cinese;

con fuochi d’artificio in spalla

disse: “Ti donerò il colore!”,

ma nell’arte dove esplode chi falla

dimostrò di non aver valore

e così chiese alla principessa ch’avvalla

di poter tornare in occasione migliore.

 

 

Partecipava discostato un cantore

che allietava quelle giornate di real folclore.

La corteggiata notò il poeta in disparte

e solo a guardarlo le si riempì il cuore;

ordinò: “Che alla prova prenda parte!”

e quello nel silenzio disse: “Ti donerò il mio amore”.

Con una lirica composta a regola d’arte

ottenne della principessa il favore.

 

Qui termina la storia che narrare ho inteso:

spero che da ciò il vostro divertimento sia dipeso!

 

In Crescendo (Eleonora Toscano)

 

Mi vieni a prendere sotto casa

Con un sorriso impacciato

La camicia inamidata

Il battito cardiaco accelerato

Mi offri la mano

Mi lascio guidare

Camminiamo piano

Sotto il temporale

 

E forse per questo sarò dannato

Ma non baciarti sarebbe un peccato

La pioggia cade

Il giorno muore

Ti giuro: “Ti amo

Croce sul cuore”

 

Una raffica di vento

L’ombrello vola via

Ti dico: “Non importa”

E non è una bugia

Mi piace la pioggia

È come una sinfonia

Sulle diverse superfici

Sui vetri delle auto

Sui nostri vestiti

– accordi di gocce che mandano un’eco

 

E nonostante io sia cieco

È come se potessi vedere ancora

– anche se solamente per poco –

Il mondo è musica invece che fuoco

 

Segnalati nel concorso di Poesia

 

IO POESIA (Lorenzo Ferrara)

Sono proibita e non posso girare,

nessuno mi scrive, nessuno mi legge,

nessuno vuol farmi passare.

Non si può poetare: è legge.

Ma il mio creatore così declama

usando parole non belle, ma sagge

“Fate ch’io possa comporre una rima,

fatemi uscire e fatemi urlare,

cantare com’ero solito prima

e alle mie genti recitare.”

E te che hai indugiato

per leggere o ascoltare

il mio poeta ti è grato.

Un altro favore vorrei domandare:

io son la poesia e lui mi ha mandato

Leggi, Scrivi, non smettere di Poetare,

dammi vita in mille modi

e nel mondo potrò tornare.

 

 

La tavola periodica (Davide Crucitti)

Ed ecco a voi la tavola di Mendelevio

che’l disordine fa savio, questo è argomento serio

divide gli orbitali pi, di, effe ed esse

in una storia che batte persino Herman Hesse

 

In principio v’era nessuno, dopo di lui al gruppo uno

trovi i metalli alcalini, rivoluzionari violenti

che chiedono gli aumenti: domandan più elettroni

ed i ricchi alogeni voglion fuori dai coglioni

quindi li attaccano, una reazione esplosiva

e come a Cartagine li mandano alla deriva.

 

Un poco più a destra i gas diventan nobili

da generazioni stabili;

la tavola è uno stato, loro classe politicante

promettono di tutto però non fanno niente

 

Ci sono poi i democratici: carbonio e idrogeno

tutti voglion negli alifatici;

ognuno deve potersi legare ed elettroni donare

 

Nello scontro di quelli con orbitali p e d

trovi atomi moderati ma secondo i metalli

sono servi dei potenti:

voglion star con la sinistra e poi bloccan le correnti

 

Scendi poi in un periodare

nemmen Leopardi’l saprebbe fare

sale il welfare elettronico, un miracolo economico!

Ma aumenta il peso, l’ordine sociale resta illeso

il kappa potassio ha 3 s pieni in nero

e lamenta quello libero;

data la situazione industriale

forma un sale biliare

così l’NO può aumentare

per trasferirsi al periodo terzo

e da ricco vivere con sfarzo!

 

Guarda questa politica, si tratta solo di chimica

però la realtà rispecchia; dal Cesio non c’è più pensione

però la nuova generazione senza lavoro invecchia.

 

Questo è’l mondo come ci appare

dall’elemento all’animale

c’è ancora molto da migliorare

per Feynman, se ci vorremo applicare

fino al centotrentadue potremo arrivare!

 

 

 

Vincitori nel concorso di Narrativa

 

L’ultima galoppata della guerra  (Francesca Minola)

Il caldo lo opprimeva. Il sudore imperlava la sua fronte e inzuppava l’ispida barba.

L’ansimare ardente dei compagni greci era l’unica prova della loro presenza, per il resto gli sembrava di essere solo sia per l’oscurità che lo avvolgeva sia per l’immobile silenzio che regnava nel ventre di legno.

Respirare era un tormento: l’aria calda penetrava nei polmoni senza portare sufficiente ossigeno o un desiderato refrigerio, in più le spesse cinghie dell’armatura lasciavano profondi solchi sulle spalle e sui fianchi, stringendo la cassa toracica, mozzando il fiato.

La sera prima l’ultimo raggio di sole aveva accarezzato l’accampamento acheo trovando già pronto il cavallo di Ulisse. Il comandante aveva insistito affinché i suoi uomini entrassero nel finto destriero prima del sopraggiungere delle tenebre, poiché sarebbe stato più rischioso rifugiarvisi dopo aver portato il cavallo sulla spiaggia vicino alla città. Una sentinella avrebbe potuto vederli.

Gli ordini erano stati chiari: non si poteva dormire, parlare, lasciare le armi, togliersi l’armatura o distrarsi dal proprio compito, dalla propria missione.

Era raggomitolato in posizione fetale, gomito a gomito con i suoi compagni d’armi, l’elmo calcato in testa, due spade ai fianchi e lo scudo a proteggere le gambe. Tra i piedi custodiva gelosamente ciò che gli era stato concesso di portarsi una fiasca d’acqua e una piccola sacca in pelle con qualche gambo di sedano. Anche altri soldati anziani erano riusciti a portarsi qualcosa da mangiare, ma la maggior parte del manipolo era composto da giovani reclute inesperte che non avevano neanche considerato l’ipotesi di dover provvedere da soli al loro nutrimento, nessuno si era preso la briga di informarli di alcunché; d’altronde la missione era un azzardo e i re greci non avevano alcuna intenzione di sacrificare i migliori, ormai pochi, combattenti, per questo l’età media all’interno del ventre di legno si aggirava intorno ai 16 anni. Un po’ compativa quei poveri ragazzi strappati dalle loro case e scaraventati sul campo di battaglia, ne aveva visti tanti negli ultimi mesi perché l’esercito greco era allo stremo. Non c’erano abbastanza soldati e i sovrani erano costretti ad arruolare nuove puerili truppe. Ma in quel momento il desiderio di sopravvivere era più forte della compassione e non gli permetteva di dividere il suo piccolo tesoro con quei ragazzi impauriti e affamati almeno quanto lui.

Nonostante avesse perso la cognizione del tempo era abbastanza sicuro che il sole stesse sorgendo, perché, per quanto possibile, la temperatura era aumentata ancora di più. La conferma del sopraggiungere del giorno fu un forte brusio che raggiunse le sue orecchie. Si sentivano voci diverse azzittirsi a vicenda e grida di gioia, di paura, di rabbia?! Non avrebbe saputo dirlo.

Sulle altre si impose una voce in particolare. Apparteneva a un uomo maturo che sovrastava gli altri per farsi ascoltare. Siccome la folla e l’oratore misterioso erano lontani dal cavallo, le parole arrivavano fioche e confuse; si capiva che non erano urla di dolore e nemmeno di gioia, allora era collera?

Il suo orecchio allenato udì un flebile fischio. Nella frazione di secondo in cui capì, accadde.

Il cavallo tremò e gli scudi rotondi tentennarono contro le spade. Erano stati colpiti, probabilmente da una freccia o da un asta non da un arma molto potente, la scossa era stata leggera.

Percepì la tensione di tutto il manipolo greco. Erano stati attaccati!

L’aria era ancora più pesante, quasi palpabile. Udì qualche compagno ansimare, probabilmente per lo spavento, e qualcuno parlare. Stava già per rimproverare la recluta, quando si accorse che il povero giovane stava pregando, lo udì biascicare il nome del grande Zeus. Allora si limito ad appoggiargli una mano sulla spalla per incoraggiarlo, quello al contatto si azzittì e bofonchio delle scuse sottraendosi dalla sua presa.

Lui non sentiva il bisogno di pregare o di affidarsi a qualche divinità, aveva una missione, l’avrebbe portata a termine o sarebbe morto nel tentativo. Ma d’altronde lui aveva molti anni di esperienza alle spalle, aveva imparato a controllare la paura e l’adrenalina.

Intanto all’esterno era tornato il silenzio rotto solo da una voce nota. Nonostante il suono fosse debole non aveva dubbi: era Sinone. Stava cercando di convincere i Troiani a portare il cavallo in città, la missione dipendeva dalla sua retorica.

Aveva avuto l’opportunità di parlarci al campo. Era sveglio e capace, arrogante ma la tempo stesso sapeva strisciare ai piedi dei superiori. Uno dei tanti combattenti achei insomma, se non fosse stato per la sua lingua, nessuno lo batteva in dialettica. Spesso si era cacciato nei guai per quella parlantina sciolta, ammaliante e convincente. Ulisse, accorto com’era, non se l’era lasciato sfuggire e già da un anno lo istruiva in privato per sviluppare la sua dote. Il discorso che Sinone stava esponendo era stato preparato mesi prima e Ulisse glielo aveva fatto provare fino allo sfinimento. Quando il re di Itaca si ritenne soddisfatto del suo allievo ordinò affinché fosse costruito il cavallo.

In quel momento le sue parole avrebbero dettato la vittoria o la sconfitta, la morte o la vita.

Si concentrò sul suo respiro nonostante i polmoni rifiutassero quell’aria impregnata di uomini.

Cercò di riprendere possesso del suo corpo intorpidito senza però muoversi troppo. Fece guizzare più volte i muscoli delle gambe, simulando tanti piccoli fremiti, lo stesso fece per le braccia.

Come suo solito prima di una battaglia ripassò mentalmente tutte le tecniche di lotta che conosceva.

Si rivide nel campo di addestramento anni addietro quando ancora bambino gli insegnarono per la prima volta a tirare un coltello, poi da adolescente quando suo padre gli mostrò i segreti della spada e della lancia.

In pochi secondi si era già abbandonata a quei dolci pensieri, lasciandosi cullare dai caldi ricordi con una punta di nostalgia e di rimpianto.

Stava ancora seguendo il filo della sua vita quando sentì il mare ribollire. Si impose di concentrarsi maledicendo la sua avanzata età, ormai da qualche mese si era ritrovato a rimuginare sugli anni passati.

Un sibilo profondo e agghiacciante allo stesso tempo squarciò l’aria. Il tempo di riaversi dalla sorpresa che si sentì un grido angoscioso di fanciullo. Un suono lacerante, doloroso anche da ascoltare. Le vibrazioni percorsero tutto il suo corpo facendolo tremare. Al primo grido ne seguì un secondo ancora più terrificante del precedente che trasmetteva una sofferenza atroce, dilaniando l’animo e mozzando il fiato.

Un altro lamento straziante si impose nelle teste dei presenti, ma era la voce di un uomo maturo.

Le urla si susseguirono per secondi interminabili. Di sottofondo erano a malapena percettibili le grida di spavento e di orrore delle donne troiane. Si strinse la testa con le mani pur di attutire quei suoni agghiaccianti che opprimevano il petto e facevano tremare le membra.

In poco meno di un minuto il silenzio riconquistò lo spazio perduto. Stava ansimando come se avesse appena corso per chilometri e la tunica era completamente bagnata dal sudore. Nonostante il caldo opprimente era scosso da brividi che dalla schiena si diffondevano per tutto il corpo e le sue mani erano congelate come se avesse appena fatto il bagno in un torrente di montagna.

I Troiani si erano accorti del tranello e avevano ucciso Sinone? No, anche se gli avessero inflitto la peggiore delle torture le urla non sarebbero state così terrificanti. Era anche abbastanza sicuro che quelle grida non appartenessero al suo compagno acheo. Ma allora chi aveva dovuto subire le pene dell’inferno? Non sapeva cosa fosse accaduto davanti alle mura di Ilio e non lo voleva scoprire.

Con il passare dei secondi il respirò tornò a regolarizzarsi e il cuore rallentò tornando a una velocità quasi normale. Come se la calma fosse contagiosa anche gli altri Greci cominciarono a tranquillizzarsi respirando più lentamente.

La concentrazione si rimpadronì del manipolo: ogni soldato era all’erta e pronto al peggio.

Inspirò profondamente e digrignò i denti. Quella sarebbe stata l’ultima battaglia: o sua o della guerra. Avrebbe utilizzato ogni singolo muscolo del suo corpo per porre fine a quel sanguinoso decennio perché quella era la sua missione.

Per qualche minuto ancora la tensione riempì il ventre di legno. Poi, uno dopo l’altro, i Greci si accorsero che il cavallo si stava muovendo accompagnato da urla di gioia.

Un gongolio soffocato sancì la sconfitta di Troia.

 

 

 

 

 

Umanità smarrita  (Alessandro Diana)

L’uomo si svegliò di soprassalto, sudato, il cuore che gli batteva forte nel petto. Guardò il quadrante della sveglia: le cinque e dieci del mattino. I piedi si avventurarono fuori dalle coperte ed incontrarono il muro gelido dell’inverno. Si mise seduto con le spalle ricurve e rimase fermo per un lungo istante. Faticosamente si costrinse ad alzarsi. Quel giorno aveva una ragione per farlo, a differenza di tutte le mattine degli ultimi mesi, che aveva passato in uno stato pietoso, tra disperazione e angoscia. Accese la luce, prese un paio di jeans blu scuro appoggiati sulla spalliera della poltrona e li indossò, si infilò la camicia azzurra e la giacca, aprì un cassetto del mobile di fianco al letto e incominciò a frugarci dentro. Tirò fuori un paio di calzini scuri e li appoggiò sul letto. Continuò a rovistare tra la biancheria fino a quando non trovò ciò che cercava. L’arma era una Beretta, una semiautomatica 92F6, la pistola che fin troppo spesso avrebbe voluto rivolgere verso sé stesso durante le lunghe notti disperate e vuote degli ultimi mesi. L’uomo cominciò a sudare freddo. Voleva davvero fare ciò che stava per fare? Ritrovò la sicurezza ripensando a sua moglie e a suo figlio. Era tutta colpa di quel ricco bastardo. Ubriaco fradicio, era passato col rosso ed aveva distrutto la sua famiglia. I giudici non avevano fatto giustizia, due vite spezzate non potevano valere solo pochi mesi di prigione. Era da molto tempo che si preparava a questo momento. Uscì dalla gelida camera da letto e spense la luce. Percorse il corridoio buio, spalancò la porta del suo appartamento e uscì. Non si preoccupò di chiudere a chiave: probabilmente era l’ultima volta che vedeva la sua casa. Decise di scendere a piedi i quattro piani di scale che lo separavano dal pianterreno, al posto di usare l’ascensore. La tensione era tanta e aveva bisogno di muoversi. Il suo piano non prevedeva la fuga, avrebbe accettato le conseguenze di ciò che si apprestava a compiere. Spalancò il portone di legno del palazzo e inspirò una grossa boccata d’aria. Assaporò ogni respiro del suo ultimo giorno di libertà. Era ancora buio e le strade erano deserte. La giornata era fredda e ventosa, le nuvole grigie e gonfie di pioggia correvano per il cielo scuro. La decisione era già presa, non ci sarebbero stati ripensamenti. Una lacrima scivolò sulla guancia, ma l’uomo la asciugò con stizza. Perché piangeva? Quello era il giorno in cui avrebbe finalmente ottenuto giustizia. Si incamminò lungo il marciapiede, girò l’angolo ed individuò la sua auto, una Toyota Corolla di colore blu scuro, parcheggiata esattamente dove l’aveva lasciata il giorno prima. Aprì lo sportello, salì a bordo, sedendosi al posto di guida, e accese il motore. L’auto partì sbuffando: l’aveva presa solo sette mesi prima, però era usata e non era affatto in ottime condizioni. D’altronde non gli importava nulla: quel freddo martedì di dicembre sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe usato quella macchina. Ogni metro che percorreva lo avvicinava 2 sempre di più alla sua meta. Sentiva ogni respiro e ogni battito del cuore. Aveva immaginato tante volte questo momento. Finalmente vide i muri alti più di otto metri del carcere di San Vittore. Represse l’istinto di tornare a casa, non aveva più nessuno che lo aspettava, doveva andare fino in fondo. Parcheggiò a circa cinquanta metri dal grosso portone in ferro battuto. Non scese dall’auto, si preparò invece alla lunga attesa. Si distese sul sedile, tirato indietro per essere più comodo e iniziò ad aspettare. Sin da subito aveva capito che quello sarebbe stato il momento più difficile. Doveva bandire ogni dubbio, ogni rimorso dalla sua mente. Doveva concentrarsi sulla rabbia bruciante che lo corrodeva da quel terribile giorno di nove mesi prima, annidata nell’angolo più buio e remoto della sua mente. La lasciò uscire, i ricordi riempirono la sua mente, inarrestabili come un uragano. Tutto quello che aveva perso: sua moglie che sedeva accanto a lui, il suo viso dolce, quegli occhi verdi bellissimi, il grande amore della sua vita, il suo adorato figlio, il volto allegro, il sorriso felice. Lui e il figlio, che giocavano a fare la lotta sul divano, in soggiorno. Le immagini si succedevano nella sua mente. Non li avrebbe più rivisti. Tutte le notti passate in bianco, tentando di sopprimere l’orribile angoscia che lo attanagliava. Era sicuro che dall’alto la sua famiglia lo stesse guardando. Doveva farlo per loro, per tutti i sogni che quello sciagurato aveva infranto. Quel ragazzo viziato che una volta uscito di prigione avrebbe ricominciato a condurre la vita di prima e, magari, distrutto un’altra famiglia. Era ormai un quarto d’ora che guardava apprensivamente l’orologio. Nove e sedici minuti, non mancava molto. Nonostante facesse un freddo terribile l’uomo nell’auto sudava copiosamente. Accarezzava con mano tremante il calcio della pistola, infilata nell’ampia tasca della giacca. Un’ automobile sportiva rossa fiammante avanzò lungo la strada e si fermò proprio di fronte al portone del carcere. Ecco il padre, il ricco politico, che veniva a prendere il figlio. Qualche minuto dopo i battenti del portone cominciarono ad aprirsi adagio. L’uomo nell’auto iniziò a respirare più velocemente, con la bocca aperta. Le nuvolette di fiato scomparivano lentamente nell’aria gelata dell’inverno. Alitò sulle mani fredde, la tensione era alle stelle. Era stato una guardia giurata per quattordici lunghi anni: sapeva sparare, ma le mani gli tremavano, e non voleva che fossero anche irrigidite dal freddo. Improvvisamente lo pervase una relativa calma, proprio mentre il portone finiva di spalancarsi. Si trovava lì per un motivo. Sapeva quello che doveva fare. Aprì la portiera dell’automobile e scese sul marciapiede, incamminandosi con passo falsamente tranquillo verso il portone aperto. Anche il padre scese dalla sua Ferrari rossa, con un grande sorriso sulle labbra. Nessuno badò all’uomo con una pistola in tasca che si avvicinava. La guardia del carcere era concentrata sul detenuto, che mise 3 piede proprio in quel momento sul marciapiede. Otto metri. Sei. Quattro. Da lì era impossibile sbagliare. Con un movimento improvviso e fulmineo estrasse la pistola, armò il cane e fece fuoco sul bersaglio. Una, due, tre volte, senza considerare minimamente il politico che lo guardava esterrefatto, o il poliziotto che tentava di estrarre la sua arma, o la madre e i tre bambini che stavano passando in quel momento dall’altro lato della strada. Ogni millesimo di secondo sembrò un’eternità, poi un dolore acuto appena sotto la spalla destra lo riportò alla realtà. Il secondino era riuscito finalmente ad aver ragione della fondina, e l’aveva colpito con un proiettile. “Getta l’arma, subito, o sparo!”. Nessun altro doveva farsi male quel giorno. Chi doveva pagare aveva pagato. L’uomo buttò l’arma a terra e si mise in ginocchio, incrociando le mani dietro la testa. Mentre calde lacrime gli bagnavano il volto e un fiotto di sangue gli colava lungo il fianco sgorgando dalla ferita, un lieve sorriso si fece strada sul suo volto pallido. Era finita. Era tutto finito. Dove la legge aveva fallito lui aveva fatto giustizia. Le manette si strinsero intorno alle sue mani tremanti. Chiuse gli occhi trovando sollievo nell’oscurità.

 

 

 

Segnalata nel concorso di Narrativa

 

ABOLIAMO IL VERDE! (Giulia Diana)

“Ho sempre voglia di ridere”.

Ecco, il mondo parla e lui risponde, hanno un modo tutto loro di comunicare.

La sua attenzione è una libellula: salta, si sposta, entra ed esce dalle cose, spicca il volo e lui gioca a rincorrerla.

Il mondo intero entra in lui come una valanga e lui non possiede barriere; assorbe tutto come una spugna con un’intimità diversa, tutta sua, con la realtà.

A voce si esprime in modo sconnesso, pronuncia parole secche, quello che trapela è concentrato: poche parole distillate con una grande eco.

I colori sono i suoi umori e le parole che non riesce a dire.

Ogni settimana ha una sfumatura diversa; nella settimana del rosso via libera al commercio di arance, carote e pomodori e blocco totale al resto.

Non ci sarebbe però una settimana verde, lui odia le zucchine.

Non potrebbe esistere il mezzo pieno o il mezzo vuoto, ci sarebbe trecentosessantacinque giorni all’anno la giornata della pizza, ogni domenica fuochi d’artificio per festeggiare la fine della settimana e il lunedì il suo inizio.

I muri delle case sarebbero fogli giganti da colorare e ci sarebbe un’altalena su ogni albero della città.

E’ un gran raddrizzatore del mondo.

Sarebbe un tiranno con le idee chiare, bisognoso di libertà.

Ma a lui è toccata una libertà a pagamento con firme di assunzione di responsabilità per insegnanti, vigili, cittadini, automobilisti e tutti i turisti in villeggiatura.

Si muove in punta di piedi, l’esitazione di un ballerino, come se danzasse su melodie segrete, con la tensione di un tuffatore sempre pronto a lanciarsi, come se conoscesse il peso della gravità e insieme prendesse lo slancio per vincerla.

Tutti i suoi gesti sono lettere inviate dal suo mondo.

Sceglie per lunghi periodi lo stesso canale, si innamora di un elemento costante, un luogo in cui poter tornare, una voce, una risata, una nota che riesca a portarlo fin qui, tra noi.

Poche parole, piene di significato: “E’ autistico”.

Da allora scoppia un uragano, da quel momento si è nella bufera.

Inizia così un viaggio che ha il potere di accompagnare per sempre.