Maximilien Robespierre

Maximilien Marie Isidore Robespierre nacque ad Arras il 6 maggio 1758 da un ventiseienne avvocato, figlio di un avvocato, e da Jacqueline Carrault, figlia di un birraio. Orfano in tenera età, povero, ottenne (1769) una borsa di studio per il collegio parigino Louis-le-Grand, ove si distinse per profitto e talento. Avvocato ad Arras dal 1781, apprezzato per l'eloquenza, critico severo dell'assolutismo monarchico e del sistema giudiziario, fu eletto deputato del terzo stato agli Stati Generali nella primavera del 1789. Distintosi presto come uno dei grandi oratori della Costituente, divenne membro e animatore del club dei giacobini. La sua proposta di estendere a tutti il diritto di eleggibilità a deputato, a prescindere dal censo, gli interventi in favore dei negri e dei soldati ammutinati, la dichiarazione: "non sono né monarchico né repubblicano" con cui, dopo la fuga di Varennes (giugno 1791), volle ribadire la sua professione di fede rivoluzionaria trascendente le etichette istituzionali, gli valsero un'immensa popolarità, accresciuta dalla semplicità della sua vita che gli meritò, dai Parigini, l'appellativo di "incorruttibile". Nutrito degli ideali di uguaglianza e di libertà di Rousseau, convinto che il "popolo" rappresentasse, nella società, l'unico elemento puro, in quanto non corrotto dalla ricchezza, si adoperò per proteggerlo contro gli oppressori; egli riteneva inoltre che l'insegnamento popolare e la religione liberata da ogni sovrastruttura potessero consolidare nei poveri la "virtù", fondamento d'ogni società stabile. Ma alla realizzazione di tale ideale si opponevano le difficoltà che attraversavano il cammino della Rivoluzione; cosicché per un certo tempo dovette limitarsi a difendere contro gli aristocratici le conquiste del 1789. Preoccupato dei complotti della monarchia e dell'aristocrazia egli ritenne quindi, con Marat, l'uomo piu' amato dal popolo, il piu' leale dei collaboratori di Robespierre, verso il quale lo stesso Maximilien nutre una grande stima, che si dovesse evitare una guerra che rischiava di fare il giuoco della corte: di qui la sua opposizione ai brissottini e al loro alleato La Fayette, da lui accusato di mirare all'instaurazione di una dittatura militare. Perciò, quando i brissottini, avvicinatisi alla corte, entrarono nel ministero (marzo 1792), li accusò di aver tradito la Rivoluzione. I primi insuccessi militari (aprile 1792) e il veto del re ai decreti della Legislativa (giugno 1792) giustificarono agli occhi del popolo le sue critiche, che egli accentuò fino al punto di suggerire la sostituzione della troppo debole Legislativa con una Convenzione eletta a suffragio universale. Sorpreso dalla giornata del 10 agosto, si adoperò, lui giurista rispettoso della legge (nell'aprile 1791 aveva fondato il giornale Le défenseur de la constitution), per dimostrare la legittimità dell'insurrezione, giacché solo nel popolo, nelle sue sezioni e nella sua Comune vedeva ormai, venuta meno la costituzione del 1791, l'unica, vera legalità. Eletto la sera del 10 agosto alla Comune insurrezionale, ne fu l'anima fino alla riunione della Convenzione nazionale (20 settembre 1792), dove, in qualità di deputato di Parigi, sedette alla Montagna, di cui fu l'oratore ma non il capo. In continua polemica coi girondini, affermò l'inutilità del processo a Luigi XVI, del quale votò la morte (gennaio 1793). Dopo la caduta della Gironda (2 giugno 1793), constatata la gravità della situazione (insurrezioni controrivoluzionarie e invasione), proclamò la necessità di un potere dittatoriale provvisorio per vincere la guerra, fine cui ispirò tutte le sue azioni politiche. Invitato a entrare nel Comitato di salute pubblica, di cui aveva difeso l'operato, accettò, non senza esitazioni (27 luglio 1793). Assiduo alle sedute di tale organismo, nel quale ebbe gran parte ma sempre sotto il controllo degli altri dieci colleghi, rivelò le sue doti di statista, adottando i provvedimenti richiesti dalle circostanze e neutralizzando vicendevolmente l'azione della Convenzione, insofferente del giogo del Comitato, con quella dei sanculotti. Nel settembre 1793 il Comitato dovette accettare una considerevole parte del programma degli arrabbiati e degli hebertisti (Maximum generale dei prezzi e dei salari, esercito rivoluzionario, Terrore); e Robespierre, pur sforzandosi di evitare la scissione tra i rivoluzionari, cominciò a sospettare di intelligenza col nemico gli estremisti di sinistra. Eliminati gli arrabbiati ed esclusi i politicanti stranieri dal club dei giacobini, pose termine alla campagna di scristianizzazione intrapresa dagli hebertisti, e si pronunciò contro l'ateismo, "dottrina dei ricchi", sostenendo invece la politica di Saint-Just, mirante a sopprimere le ineguaglianze sociali. Per evitare, però, un troppo profondo sovvertimento della società, parve, per un momento, appoggiare Danton, che ora predicava l'indulgenza e attaccava quindi gli hebertisti; poi denunciò il duplice pericolo delle fazioni di destra e di sinistra, che egli riteneva in pari misura ispirate dallo straniero. Nel marzo 1794 il Comitato fece arrestare e poi giustiziare gli hebertisti; nell'aprile condannò alla medesima sorte gli indulgenti. Per giustificare sul piano spirituale la propria opera, istituì il culto dell'Essere supremo, di cui indisse la festa il 20 pratile (8 giugno 1794), durante la quale si attirò l'ostilità di molti deputati della Convenzione che lo accusavano di aspirare alla dittatura. In seguito a due falliti attentati contro di lui, il Comitato fece votare la legge del 22 pratile (10 giugno), destinata ad accentuare il Terrore; ma dopo la vittoria di Fleurus (26 giugno 1794) il duro regime imposto dal Comitato parve inutile ai Francesi e contro Robespierre, che di esso era l'incarnazione, si coalizzarono quanti miravano a sostituirlo. Il Comitato, d'altronde, era fin dalla primavera lacerato da profonde discordie: il conservatore Carnot e i terroristi Billaud-Varenne e Collot d'Herbois finirono con l'allearsi con la maggioranza del Comitato di sicurezza generale, privato delle sue funzioni di alta polizia, e coi rappresentanti in missione (Fouché, Tallien, Barras, Fréron); per cui il "marais" (o palude) poté poi prevalere. Malato, stanco di quelle dispute, Robespierre disertò per oltre un mese, dal 24 pratile (12 giugno 1794), il Comitato e la Convenzione: vi riapparve, perché sollecitato, il 5 termidoro (23 luglio) e l'8 termidoro, alla Convenzione, attaccò, ma, senza nominarli, i suoi avversari. Questo errore gli fu fatale perché anche chi, probabilmente, non aveva nulla da temere, si sentì in pericolo e si unì ai nemici di Robespierre. Costoro si accordarono nel corso della notte: durante la seduta del 9 termidoro (27 luglio 1794) Robespierre e i suoi amici (SaintJust, Couthon, Le Bas e Augustin de Robespierre) non riuscirono neppure a farsi ascoltare; e contro di essi, alle tre del pomeriggio, vennero spiccati mandati di cattura. Arrestati, furono liberati dalla Comune, che li ospitò all'Hôtel de Ville; ma la Convenzione li dichiarò fuori legge. Non presero alcuna decisione: forse rassegnati, forse in attesa di nuovi eventi. Quando, alle 2 del mattino del 10 termidoro, le forze della Convenzione, agli ordini di Barras, si recarono di nuovo ad arrestarli, Robespierre tentò di uccidersi con un colpo di pistola che gli fracassò la mascella. Fu ghigliottinato la sera di quello stesso giorno, sulla piazza della Rivoluzione. L'opera di Robespierre è stata ed è variamente giudicata; chi lo ha condannato come un tiranno avido di potere, arroccato su posizioni rigidamente dogmatiche, chi ne ha esaltato il sincero spirito democratico e la rigorosa coerenza. Ma, come è difficile porre in dubbio le sue capacità politiche, tradottesi in una serie di provvedimenti efficaci, così è opportuno sottolineare che egli, benché non sia stato il solo promotore del Terrore, tuttavia lo accettò e lo giustificò. Il massimo difetto di Robespierre consisté, però, in un eccesso di astrattismo ideologico, quasi disumano, che lo portò a estraniarsi gradualmente dalla realtà: ciò derivò dalla sua fede illimitata nella Rivoluzione intesa come forza distruggitrice delle sovrastrutture della società e tale da rendere possibile il ritorno ai valori primigeni dell'uomo, secondo la lezione dell'autore del Contratto sociale. A tale fede Robespierre sacrificò, sotto la maschera dell'impassibilità, sentimenti ed emozioni con il risultato di essere indotto spesso ad azioni spietate e obiettivamente crudeli.

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