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Quindi, l’importante era capirsi, cosa non facile tra mori e cristiani e con le varie lingue more e cristiane in mezzo a loro; se ti arrivava un insulto indecifrabile, che potevi farci? Ti toccava tenertelo e magari ci restavi disonorato per la vita. Quindi a questa fase del combattimento partecipavano gli interpreti, truppa rapida, d’armamento leggero, montata su certi cavallucci, che giravano intorno, coglievano a volo gli insulti e li traducevano di botto nella lingua del destinatario. - Khar as-Sus! - Escremento di verme! - Mushrik! Sozo! Mozo! Escalvao! Marrano! Hijo de puta! (…).
                                                               da Il cavaliere inesistente, cap. IV

Elisabetta Mercanti
5 A

Erano uno di fronte all’altro si guardavano e comunicavano, no la comunicazione prescinde che ci sia anche una comprensione, si parlavano addosso e forse era una nuova frontiera della comunicazione basata su suoni, sguardi, gesti e solo quello. Corpi di fronte che interagivano senza apparente senso in uno scambio di emozioni e paure forse. Ci prendevano gusto forse capivano molto di più da questo “discorso” se così si può chiamare che da un discorso basato su un vocabolario forbito. Era divertente originale credevano entrambi di spingersi oltre la soglia della comunicazione e così facevano e questa era l’unica cosa importante. Dalla paura di una comunicazione mancata, deviata stavano dando forma, abbattendo gli stereotipi, alla comunicazione del futuro; creavano nuove parole e più parlavano, più si lanciavano versi addosso, più capivano di sé e degli altri. A volte ridevano, era molto più divertente del solito. Mano a mano che il discorso si snodava senza un filtro, usciva dalla bocca, capivano più dell’altro e di se stessi. Erano finite le inibizioni, le paure, i fraintendimenti gli errori grammaticali o sintattici. Era la più totale libertà di parola, di espressione, la nuova frontiera. Una porta aperta sul futuro e perché no sul passato. La comprensione era velocissima forse perché in realtà non c’era o forse perché tanto non c’era mai stata. Una lingua nuova un nuovo mondo.. la mente andava molto più lontano delle parole nello stesso tempo e non c’era bisogno di preoccuparsi: tutti e due facevano lo stesso. Erano uno di fronte all’altro di fronte alla metropolitana pensando ai labirinti che avevano nel cervello. Si erano persi ebbene sì, ma non volevano essere salvati.

Silvia
4 F

Si potrebbe credere che (…), mangiando, si chiudesse in se stessa immedesimandosi nel precorso interiore delle sue emozioni; in realtà invece il desiderio che tutta la sua persona esprimeva era quello di comunicarmi ciò che sentiva: di comunicare con me attraverso i sapori, o di comunicare coi sapori attraverso un doppio corredo di papille, il suo e il mio.
Non solo masticava con una meticolosità indefinibile, ma torceva o distendeva le dita a seconda dell’intensità di piacere che percepiva. Ogni boccone si moltiplicava in mille gesti che la facevano parlare, anche in silenzio. In poco tempo avevo imparato che se stringeva la forchetta più intensamente del necessario era perché quel boccone non aveva subito l’attenzione necessaria e che era andato sprecato, causando in lei un forte risentimento. Se invece afferrava il bicchiere d’acqua non era perché aveva bisogno di bere ma perché un sapore intenso era arrivato alle sue papille.
Poi con altri gesti mi comunicava se quel sapore era degno di lode o di profonda irritazione. Se alzava le sopracciglia indicava un piacere inatteso e gradito; se tirava leggermente verso sinistra le labbra era perché quel boccone non esprimeva tutte le qualità proprie della pietanza che si trovava davanti. Mai nessun gesto esprimeva un completo piacere o disgusto quanto il movimento degli occhi. Fissi nei miei, non riuscivo a distoglierne lo sguardo neanche per un secondo. Risucchiava le mie sensazioni attraverso un condotto che solo lei sapeva creare e che nessun altro aveva osato instaurare davanti a me in quel modo.
La vista delle sensazioni suscitate da ogni mio singolo boccone le provocava immenso piacere o immenso dolore. E pur sapendolo, non sarei mai riuscito ad impedirmi di comunicarle ciò che  percepivo. Il condotto passava dalle mie papille gustative alle sue attraverso i nostri occhi. Ed era tanto indissolubile che alla fine di ogni cena ci bruciavano gli occhi dallo sforzo.
Lei mangiava con due bocche: la sua e la mia. Se un mio boccone non coincideva con il suo per gli effetti sulle papille gustative lei riusciva a fare la media tra le nostre sensazioni: in cambio io ottenevo un corrugamento della sua scurissima fronte. Se i nostri piaceri acquolinici coincidevano si trasformavano in una rotazione dei suoi bulbi oculari per comunicarmi l’intenso piacere provocato da quel singolo boccone; se entrambi percepivamo disgusto o amarezza nei confronti di un a forchettata silenziosa, i suoi occhi si trasformavano in una valle di lacrime che puntualmente sfociavano su un dorso di una mano, che teneva sempre a portata di viso.
Per ore non una parola volava tra di noi: non eravamo una coppia di muti (le ordinazioni le conducevamo sia io che lei e ad alta voce), ma una volta stabilito il menù muovevamo le labbra solo per far entrare i nostri bocconi, le nostre parole.
Dopo ogni cena facevamo fatica a ritornare ad un alfabeto che non fosse quello fatto di segni. Un alfabeto che io capivo ma che, a differenza di lei, non avevo ancora imparato; come tutti coloro che volendo imparare una lingua nuova, dapprima non capiscono nulla e non sanno parlare, poi capiscono tutto ma continuano ad ignorare quel piacere che suscita una lingua non tua parlata spontaneamente e poi dopo anni e anni di pratica raggiungono la piena padronanza del linguaggio.